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Istituti di educazione
Il Codice Civile del Regno d'Italia del 1865 e la
Legge di Pubblica Sicurezza stabiliscono che i minori di anni
sedici, oziosi o vagabondi, siano dapprima consegnati ai loro
genitori o tutori, che attendano alla loro istruzione professionale
e, in caso di inadempienza, siano ricoverati in uno stabilimento
pubblico di lavoro affinché apprendano un mestiere
o una professione.
Il questore Berti - in carica fino al 1868 - accoglie con
soddisfazione le nuove leggi che, secondo il suo parere, permettono
di combattere "la mala abitudine dell'ozio e dell'accattonaggio".
(Rapporto del 5 gennaio 1867). Nel giugno del 1868, dai reati
segnalati al prefetto dalla polizia risulta che il 37,8% sono
reati di accattonaggio, vagabondaggio o oziosità. Berti
esortava a rimedi più radicali di quelli di polizia,
e cioè "della educazione popolare, degli asili
d'infanzia, dei ricoveri di mendicità, del patronato
pei discoli e pei derelitti e sopra tutto una scuola per mozzi
od altra maniera di occupare o di togliere dalla scioperataggine
gli adolescenti (Vedi foto n. 1 e 2).
[Rapporto, 4
aprile 1867]
La Casa d'Industria, sorta nel 1812 per debellare
il fenomeno del vagabondaggio e della mendicità dando
ricovero e lavoro a uomini e donne poveri e a fanciulli abbandonati
avviandoli al lavoro, dovette affrontare il problema della
massiccia presenza nella Casa di ragazzi che, avendo superato
i sei anni, non potevano essere accolti negli orfanotrofi.
I maschi venivano inviati in campagna a lavorare presso famiglie,
o come mozzi nelle navi. Anche ragazze tra gli undici e quattordici
anni venivano affidate temporaneamente a famiglie fuori città,
ritornando "lacere, scalze e molte volte anche sommamente
lorde e infette" (Lettera del direttore alla Congregazione
di Carità 8.8.1815).
Si ha notizia che nel 1813 un gruppo di "ragazze di qualche
avvenenza" vennero alloggiate in un settore a parte dell'edificio,
detto "local superiore", dove erano istruite alla
filatura e sorvegliate da una maestra e potevano uscire soltanto
la domenica per assistere alla messa, sempre accompagnate,
finché non si pensò a una messa interna per
loro.
Nel 1817 venne definitivamente aggregato alla Casa un reclusorio
per ragazze, filiale dell'orfanotrofio delle Terese. Vi sono
ripetuti progetti di trasferirle alla Terese o alle Zitelle
continuamente rimandati, anche perché la loro produzione
"è la fonte principale che assicuri la maggior
quantità di canape bene filato."
In quello stesso anno la Commissione Governativa rileva la
presenza di 346 fanciulli di cui 284 "oziosi" e
62 che lavorano. Per educarli al senso del dovere il Presidente
della Commissione propone di insegnare loro il catechismo,
fondamento dell'educazione e strumento di controllo da affiancare
dell'apprendimento del mestiere. Nel nuovo regolamento, introdotto
dopo la riforma del 1854, si istituisce un riformatorio con
lo scopo di accogliere, custodire ed educare, "secondo
i principj della santa religione cattolica romana ad una sana
morale ed all'esercizio di una qualche arte i fanciulli non
raccolti in altri istituti ed abbandonati sulla strada ad
una vita scioperata, onde farne di loro onesti cittadini ed
abili artigiani".
[Regolamento
della Casa d'Industria in Venezia, Venezia 1854, Tit. V]
Oltre alla Casa d'Industria vi sono altri istituti gestiti
dalla Congregazione di Carità:
L'Istituto Manin maschile e femminile - fin dal 1857
- accoglie fanciulli e fanciulle tra gli 8 e i 12 anni abbandonati
o di famiglie povere per toglierli dalla strada e renderli
in grado di provvedere a se' stessi lavorando.
I maschi vengono addestrati in officine e laboratori dove
svolgono un vero apprendistato per imparare un mestiere, le
ragazze invece vengono istruite nei lavori "donneschi",
cucitura e stiratura, rammendo e rattoppo, ricamo a merli
e a fuselli, confezionatura di biancheria e vestiario a mano
e a macchina, al fine di "riuscire capaci lavoranti,
valenti cameriere, brave massaie" (vedi foto n. 3, 4,
5 e 6).
[Regolamento
dell'istituto Manin, Venezia, 1857]
La meta è il matrimonio, per questo una volta completata
l'educazione all'uscita dall'Istituto le allieve ricevono
una dote in denaro ed effetti di vestiario; tuttavia, nella
consapevolezza che non è facile per le ragazze sposarsi
e comunque il salario del capofamiglia ha bisogno di essere
integrato, vi è l'idea implicita che il saper svolgere
bene lavori domestici serva a loro ad essere brave donne di
casa, ma diventi anche una fonte di guadagno in caso di bisogno.
L'istruzione professionale prevista negli istituti consiste
unicamente in quei mestieri di carattere domestico utili alle
future donne di casa, ma che rappresentano anche una fonte
di guadagno in caso di bisogno; si teme - denunciano i riformatori
- che dare alle ragazze un'arte "le svezzi dalla vita
domestica, le allontani dalle affezioni della famiglia"
e piuttosto che nell'azione moralizzatrice del lavoro, si
confida nella tutela di padroni e padrone. (CESARE DELLA VIDA,
L'Istituto Manin di Venezia e l'educazione degli operai,
1877).
Nel 1857 viene istituito anche il Patronato di Castello
per raccogliere ragazzi maschi "traviati dal vizio, bisognevoli
di soccorso, istruzione e lavoro."
I fanciulli più recalcitranti vengono fatti lavorare
sotto sorveglianza nelle sei officine interne all'istituto:
tipografia, calzoleria, falegnameria, rimessaio, confezione
delle cordelle, fabbro, I più onesti e volonterosi
vengono collocati presso un artiere esterno all'istituto.
I più pericolosi pernottano presso l'Istituto: nel
1866 sono 25; 300 ragazzi usufruiscono delle lezioni di catechismo
e 100 seguono la scuola mattutina che insegna loro a leggere
e scrivere e far di conto.
L' Orfanotrofio femminile delle Terese, accoglie fanciulle
orfane di entrambi o di un solo genitore. Lo statuto prevede
che la Congregazione di Carità - da cui dipende - procuri
accordi con le principali imprese industriali della città,
affinché le allieve siano addestrate in lavori che
assicurino di poter trovare impiego all'esterno.
Nell'anno 1882 vengono infatti stipulate convenzioni con la
ditta Frollo di fiori artificiali e Trapolin di passamanerie;
ma essendo l'Istituto ubicato a Santa Marta, vicino al Cotonificio
sorto da poco, si pensa ad una istruzione delle orfane in
prospettiva di entrare come operaie nello stabilimento, la
qual cosa è vista favorevolmente come una via d'uscita
dalla "misera cerchia attuale dei soliti mestieri"
di cameriera e domestica, collegando gli Istituti educativi
"col nuovo movimento industriale della città".
(Lettera del direttore del Cotonificio, 1882).
Il locale individuato allo scopo è l'ospizio abbandonato
a ridosso dell'ex convento detto delle Terese, ma da questo
separato, dove possano accedere alla scuola, a orari alterni,
sia le orfane interne, sia allieve esterne senza che vi siano
contatti tra loro; ceduto ad uso gratuito alla Società
del Cotonificio vi vengono installati gli aspatoi per ridurre
in matasse il cotone filato, mossi a mano o a motore grazie
a una macchina a vapore posta nel cortile.
La Congregazione pone come condizione che siano accolte di
preferenza, sia nella scuola che in seguito nello stabilimento,
fanciulle da lei raccomandate, richiesta che la direzione
del Cotonificio accoglie decisamente, convinta così
di poter avere "una manovalanza più seria, meglio
educata e più facile a dirigere."
L'orfanotrofio delle Terese viene descritto, anche dalle relazioni
ministeriali, come una "numerosa famiglia" ben diretta
e ben organizzata, nella quale le bambine, entrate denutrite
e malaticce, sono ben nutrite e ben curate, in un luogo igienicamente
sano in cui imparano presto ad essere disciplinate e ordinate
e a diventare piccole lavoratrici.
Tra i motivi che l'amministrazione adduce per negare l'uscita
a due fanciulle reclamate dalla loro madre, vi è il
danno economico che deriverebbe all'istituto lasciando precocemente
in libertà le orfane capaci. Si tratta non più
di rinchiudere le bambine per sorvegliarle, ma di formare
quella mano d'opera qualificata e disciplinata richiesta dalle
nascenti fabbriche.
Le "orfanelle" saranno le prime operaie specializzate
del Cotonificio.
Una fotografia della fine del secolo (vedi foto n. 7) ritrae
un gruppo di educande dell'orfanotrofio in posa in un cortile
interno. Indossano la divisa estiva, composta da vestito a
righe con mantellina, collettino bianco, grembiulino bianco,
capelli raccolti: le bambine più piccole hanno in mano
corde da saltare e palle, le più grandicelle lavori
di ricamo o libri; gli oggetti stanno ad indicare forse le
diverse attività nelle quali sono impegnate nel poco
tempo "libero", da non lasciare mai completamente
vuoto; nulla allude al loro essere piccole operaie.
L'Istituto delle Zitelle, fondato nel 1559 da Benedetto
Valmio della Compagnia di Gesù per salvare le giovanette
povere di condizione civile esposte al pericolo della seduzione
e sopravvissuto nel tempo ad alterne vicende, accoglie gratuitamente
ragazze di età non inferiore a 12 anni e non superiore
a 18, sane, di buona condotta e cattoliche.
La loro educazione e nutrizione è migliore che negli
altri Istituti della Congregazione, trattandosi di allieve
di condizione civile che si vogliono mantenere distinte dalle
ragazze di estrazione popolare.
Oltre alle materie di base, affiancate da lavori donneschi
ma non di commissione, studiano anche francese e canto. Delle
licenziate comunque soltanto alcune proseguiranno gli studi
nella scuola Normale per diventare maestre, la maggior parte
farà la cameriera, poche si sposeranno, le altre rimarranno
a lungo nel conservatorio.
Prima dell'uscita a 21 anni le allieve che hanno disposizione
vengono esercitate nello studio teorico e pratico della telegrafia
e scrittura a stampa. Le allieve di buona volontà,
non le infingarde, possono trarre grande vantaggio da quanto
vien loro insegnato, e provvedere per il loro avvenire; occupando
qualche posto al telefono o al telegrafo o collocandosi presso
qualche distinta famiglia in qualità di cameriere;
o continuare gli studi magistrali
[Relazione Istituto
Zitelle anno 1905]
L'indirizzo formativo della Zitelle non è ben chiaro,
come rileva la direttrice Luigia Moro propensa a dare alle
allieve una formazione decisamente volta a diventare cameriere
qualificate.
Con la necessità di una riforma concorda anche l'ispettrice
governativa, la quale suggerisce di passare le figlie del
popolo all'Istituto Manin o alle Terese, destinate a diventare
domestiche o bambinaie dal momento che " per tale scopo
modesto la soverchia istruzione sarebbe inutile, (direi) anzi
dannosa" (Relazione dell'Ispettrice Bastianelli, 1892);
in questo modo sarebbe possibile dare loro un'educazione conveniente
e potrebbero aspirare a diventare istitutrici per famiglie
private. In seguito viene introdotto lo studio teorico e pratico
della telegrafia e scrittura a macchina per preparare le ragazze
ai nuovi impieghi, senza arrivare ad una vera riforma (vedi
foto n. 8 e 9).
Nel 1883 viene istituita una "Casa
paterna" al Lido per l'educazione agraria e orticola
degli orfani degli inondati e dei figli di famiglie povere,
trasferita nel 1910 a S. Donà di Piave e, dopo la guerra
del 1915-18, a Mira.
Per gli orfani di pescatori e marinai vi è la Nave-asilo
"Scilla", una vecchia nave da guerra dove
imparano "la vita rude e operosa del marinaio" (vedi
foto n. 10).
Nel corso dell'800 cresce notevolmente anche il numero di
istituti privati per accogliere fanciulle povere: scuole
di carità, educatori femminili, persino case.
Il movimento cattolico infatti, il cui attivismo è
rinvigorito dopo l'annessione e che vede uno spiccato protagonismo
femminile, individua nell'educazione dei bambini, e soprattutto
delle bambine, il terreno privilegiato per fronteggiare la
decadenza morale e spirituale della società, dovuta
alla modernità con i suoi corollari di trasformazione
della famiglia e di allargamento del lavoro extradomestico
delle donne.
Don Luigi Caburlotto, fondatore con Maria Vendramin dell'ordine
delle figlie di S. Giuseppe (Giuseppine) per accogliere ed
educare bambine povere a S. Zan Degolà, preferisce
indirizzare le sue cure alle femmine perché "
il male maggiore di questo metodo di vita scioperato va ad
essere recato alle fanciulle, le quali insensibilmente passano
alla perdita di ogni verecondia e si danno in seguito in preda
alla dissolutezza". Anche il parroco di S. Pietro di
Castello, monsignor Gregoretti, inizia a raccogliere nel 1852,
in una piccola casa che diventa nel 1873 l'Istituto Buon
Pastore, "povere fanciulle che corressero pericolo
grave di seduzione sia per l'abbandono dei genitori, sia per
la cattiva indole delle stesse fanciulle" (Piano disciplinare
della casa d'asilo onde custodire le giovanette povere,
Venezia, 25 luglio 1851).
Secondo il parere dell'ispettrice, inviata dal Governo centrale
a controllare gli istituti femminili privati, il tempo dedicato
alle pratiche di pietà è eccessivo, mentre manca
una educazione alle virtù civili e domestiche; l'aspetto
delle bambine risulta in alcuni di questi luoghi "triste
e quasi stupido", appaiono sudicie e disordinate nella
persona e nella tenuta dei libri e dei quaderni; l'insegnamento
elementare è scarsissimo, se non del tutto assente,
le bambine vengono occupate in doveri domestici, lavori di
rammendo, cucitura, ricamo, atti a tenere impegnati il corpo
e la mente piuttosto che addestrare ad un mestiere.
Dello stesso parere è Gualberta Alaide Beccari che
intervenendo nel suo giornale "La
donna" sollecita un rinnovamento degli istituti di
carità dove non si istruisce né si educa, la
pietà religiosa è esagerata e ripetitiva e alle
povere ragazze si ricorda che "nate per essere serve
non deggiono innalzare le loro idee che
tutt'al più
per diventar cameriere." (25.2.1872)
Sempre secondo l'ispettrice urge una riforma seria e radicale
di questi istituti affinché non siano "soltanto
semenzaj di serve, e di cattive serve, o di ragazze che finiscono
male per mancanza appunto della coltura pratica e dell'abilità
necessaria a guadagnarsi da vivere con una certa facilità,
bensì luoghi pii in cui si allevino buone massaie e
brave operaie." (Relazione Fojanesi-Rapisardi, 1900).
La fabbrica è vista dunque come alternativa al servizio.
Diversa l'aria che si respira all'interno dell' Istituto
Canal al Pianto - fondato dal monsignor Daniele Canal
nel 1841, convincendo la direzione della Casa d'Industria
che occorreva raccogliere le giovani in un luogo separato
- diretto dalla figlie del Sacro Cuore a Castello; qui le
giovinette sono ben curate , "crescono virtuose ed ordinate,
rendendole soprattutto esperte nei lavori donneschi e nel
disimpegno delle cure domestiche." I lavori di ricamo,
anche in seta ed oro, e gli scialli eseguiti dalle educande
su commissione sono di tale finezza e buon gusto da essere
molto richiesti e alcune potranno diventare insegnati di ricamo,
mentre la maggior parte di loro troverà collocamento
come cameriera.
Un altro istituto, detto Canal ai Servi, è
fondato da Daniele Canal nel 1867 coinvolgendo nel progetto
la nobildonna Anna Maria Marovich che ne diventa la direttrice
istituendo l'ordine delle suore della Riparazione; oltre alle
dimesse dal carcere accoglie fanciulle vagabonde condotte
dagli agenti della questura o in pericolo di scivolare nella
prostituzione. Nel 1892, quando viene visitato dall'ispettrice
inviata dal Governo, vi sono 170 fanciulle, la maggior parte
figlie naturali riconosciute dalle madri; sono divise in tre
sezioni - grandi, mezzane e piccole - e ricevono, oltre all'educazione
morale ed elementare, educazione professionale: le piccole
imparano a fare la calza, l'uncinetto e il tombolo, le mezzane
si perfezionano nel cucito a mano; le grandi lavorano anche
a macchina.
L' Istituto dei Catecumeni, oltre alle attività
volte a diffondere la religione cattolica , come l'istruzione
religiosa per le donne della parrocchia, la preparazione alla
comunione e alla cresima delle bambine, la ricreazione domenicale,
tiene anche una scuola di lavoro per le ragazze, divisa in
cinque sezioni, con lavori progressivamente più impegnativi
a seconda dell'età: le piccole bimbe di cinque-sei
anni si addestrano su imparaticci, ma confezionano anche fazzoletti
e grembiali; un po' più grandine - dai sei agli otto
anni - fanno camicie, calze, maglie; le ragazzine dagli otto
ai dieci anni confezionano capi di vestiario; vi è
poi la scuola professionale dove si eseguono lavori di biancheria
per la casa, pizzi all'uncinetto e a fuselli e si ricamano
e paramenti sacri; infine vi è il laboratorio frequentato
dalle più abili che eseguono lavori su commissione
sia a mano che a macchina.(Relazione di Teresa Maran, 1896-97)
L'Istituto Coletti, fondato dal'abate Carlo Coletti
a S. Giobbe, inizialmente per ospitare fanciulli vagabondi.
E' sua intenzione accogliere non i buoni, ma i "cattivi"
per farli ravvedere con l'educazione "nella sana morale,
ad utilità della patria ed a sicurezza dello stato",
per preparare per l'avvenire " una generazione di prodi
artigiani e di utili cittadini, sorta dalle macerie di un
triste passato". ("Gazzetta di Venezia", 28
luglio 1872) "Religione e patria - istruzione e lavoro"
è il suo motto (vedi foto n. 11).
L'autorità governativa stipula con lui un contratto
secondo il quale il suo istituto è obbligato ad ospitare
fanciulli oziosi arrestati dalla questura fino al raggiungimento
della maggiore età. Dopo l'accordo col governo, nell'agosto
del 1871, conta 80 ragazzi, che salgono a 242 nel settembre
1892 e a 292 nell'agosto 1873. I fanciulli si dividono in
tre categorie: i beneficati, ospitati a spese dell'istituto;
i dozzinanti, che godono di un assegno mensile versato da
benefattori privati; i governativi, ricoverati forzosamente
a spese dello stato. Appena ammessi all'Istituto i giovinetti
vengono obbligati a scegliersi un mestiere od un'arte e occupati
nelle officine di falegname, finestraio, rimessaio, fabbro-ferraio,
calzolaio, tessitore, ecc. (vedi foto n. 12).
Viene loro insegnato a leggere, scrivere e far di conto, esercizi
ginnici e militari, hanno lezioni di religione, agricoltura,
botanica, disegno e canto.
Il Coletti proclama che nel 1871 su 52 fanciulli 35 sono usciti
dalla schiera degli analfabeti.
Ma alla sua morte l'Istituto è in difficoltà
economica e si denunciano le condizioni disastrose nelle quali
sono tenuti i ragazzi sudici, sporchi, affamati, senza scarpe
e vestiti e vi è anche una denuncia per violenza carnale.
Nel 1894, a Mestre, don Felice Groggia, arciprete
di S. Lorenzo, apre una "scuola delle fanciulle del popolo",
poi chiamata Istituto San Gioacchino. Alle bambine
si impartisce l'insegnamento elementare e vengono avviate
ai lavori femminili. Vi è poi la ricreazione domenicale
per giovani donne.
Ragazzi e ragazze orfani della terraferma vengono accolti
anche nella Pia Casa di Ricovero dei Battuti, che dal
1926 organizza corsi professionali di economia domestica e
sartoria per le ragazze, falegnameria e meccanica per i ragazzi.
1921, nasce l' Istituto Berna per accogliere i fanciulli
poveri e orfani di guerra e avviarli al lavoro operaio (vedi
foto n. 13).
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Foto 1. Istituto Infanzia abbandonata. Una classe di "piccoli"

Foto 2. Istituto Infanzia abbandonata. Gruppo degli allievi.

Foto 3. Istituto Manin e Orfanotrofio maschile. Scuola di
disegno.

Foto 4. Istituto Manin e Orfanotrofio maschile. Officina
Falegnami.

Foto 5. Istituto Manin e Orfanotrofio maschile. Officina
meccanica e Macchine.

Foto 6. Istituto Manin e Orfanotrofio maschile. Una scuola.

Foto 7. Orfanotrofio femminile delle Terese. Le Orfanelle.

Foto 8. Istituto delle Zitelle e Orfanotrofio femminile.
Scuola di lavoro mezzane.

Foto 9. Istituto delle Zitelle e Orfanotrofio femminile.
Il gruppo delle allieve.

Foto 10. I marinaretti della nave Scilla.

Foto 11. Istituto Coletti. Orfani di guerra.

Foto 12. Istituto Coletti. Scuola professionale Fabbri Meccanici.

Foto 13. Istituto Berna a Mestre.
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