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L'istituto professionale
Nell'Italia del dopoguerra in modo sempre più pressante
si poneva la necessità di una maggiore qualificazione
della forza lavoro per affrontare la disoccupazione e lo sviluppo
economico.
Con queste priorità il cosiddetto Piano Vanoni,
in altre parole lo Schema di sviluppo della occupazione e
del reddito in Italia nel decennio 1955-1964, affrontò
la questione dell'istruzione professionale. Si proponeva di
dare un'istruzione sommaria alle forze del lavoro che ne avevano
bisogno, ai giovani, ma anche ai disoccupati da riconvertire
e alla grande massa di contadini che lasciavano l'agricoltura
per avvicinarsi all'industria. Era poi convinzione comune
che la manodopera eccedente poteva trovare più facilmente
lavoro all'estero se aveva una qualificazione e non era generica.
In pratica il Piano Vanoni prevedeva che dal 1955 "da
tre a quattro milioni di lavoratori dovevano essere interessati
alla istruzione professionale in aggiunta al normale sviluppo
e frequenza scolastica". Necessitavano quindi nuove scuole,
"circa 200 nuove scuole professionali".
In questo contesto si parlò anche delle nuove caratteristiche
da dare all'istruzione professionale. Si affermò necessaria
una istruzione professionale che non si limitasse alla specifica
preparazione ad un mestiere.
Inoltre si discusse sui contenuti dell'insegnamento da dare
agli operai, su quali e quante nozioni trasmettere. Ci fu
un visibile cambiamento e si aprì all'introduzione
delle materie umanistiche e scientifiche. Si affermò
che le nozioni apprese potevano migliorare la "duttilità
dell'operaio" e renderlo più produttivo. Si scrisse
in merito a questo che:
" molti generi di lavoro possono
essere compiuti da un operaio privo di istruzione come da
un operaio istruito, e che i rami più elevati dell'istruzione
hanno scarsa utilità diretta, eccetto che per gli imprenditori
e i capi operai e un numero relativamente piccolo di artigiani.
Ma una buona istruzione (
) stimola anche all'operaio
comune la sua attività mentale, coltiva in lui una
abitudine di sana curiosità, lo rende più intelligente,
più pronto, più fidato nel suo lavoro ordinario,
eleva il carattere della sua vita durante le ore di lavoro
e fuori di esse, e concorre in tal modo alla produzione della
ricchezza materiale".
Si resero evidenti le limitazioni dei corsi di breve e brevissima
durata che erano numerosissimi.
Con quest'ottica trovarono maggiori incentivi gli istituti
professionali, previsti dalla legge n.739 del 1939, piuttosto
che le scuole tecniche, com'era ancora il Volta. Si poteva
accedere all'istituto professionale con la licenza di scuola
media o di scuola di avviamento mentre l'orario scolastico
era di circa 40 ore settimanali. L'istituto professionale
era visto come lo strumento adeguato per un sano coordinamento
tra formazione intellettuale e formazione professionale; rispondente
ai più esigenti aspetti della moderna vita economica;
"polivalente e adattabile a tutti gli aspetti dell'economia
agricola, industriale, artigianale".
Nella organizzazione degli studi furono quindi previsti insegnamenti
culturali e professionali ed il tirocinio pratico del mestiere.
(v. foto n. 1)
A Mestre solamente nel 1959 si cominciò a ragionare
sulla trasformazione della Scuola tecnica in Istituto professionale.
Il Consorzio Provinciale per l'Istruzione Tecnica di Venezia,
nel dicembre del 1959 espresse parere favorevole alla trasformazione
argomentando sui "prevedibili sviluppi del mercato internazionale
di lavoro per l'attuazione del MEC". Non fece alcun richiamo
alle necessità di Porto Marghera e del suo bacino di
riferimento. Sembrava quasi che l'aggiornamento professionale
riguardasse il mercato estero del lavoro e quanti dovevano
emigrare.
L'Istituto professionale di stato "A. Volta"
cominciò a funzionare nell'anno 1962.
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Foto 1. Officina di aggiustaggio.
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