Ricordi del Foscarini e del Marco Polo
Di Lucio Rubini
L'inverno del '43 l'avevamo trascorso a cospirare tra di
noi passando a turno da una casa all'altra: Franco Basaglia,
Fulvio De Marchi, Uccio Pagnes, Giorgio Ghezzo, Ciccio Carlotti
ed io. Tutti maturati in quell'anno. Giorgio e Ciccio tentarono
persino di passare al sud, traversando le linee.
Intanto alcuni nostri amici, Berto Ongaro e Mauro Faustinelli,
avevano avuto a che fare con la squadra politica del questore
Jasonni e avevano fatto il loro ingresso a Santa Maria Maggiore
(il carcere), e a noi sembravano degni di ammirazione e anche
d'invidia, per essersi già distinti in qualche cosa.
Fu allora che appresero, per primi, le canzoni della "galera"
e in specie "Il cielo è una coperta ricamata",
con le quali nelle serate del primo dopoguerra avremmo rievocato,
accompagnati dalla chitarra di Mario e di Hugo Pratt, i tempi
della generosa pazzia.
Ma intanto la nostra cospirazione non faceva un passo avanti.
Solo Franco, tramite Giorgio Velluti, riusciva ad avere qualche
manifestino del Partito d'Azione. Ci volle la primavera, forse
eravamo in marzo o aprile, (quando si cominciò a capire
che la fine della guerra era ancora lontana), per essere ammessi
a contatti più impegnativi, come frequentare la sartoria
di Leone Cavallet.
Questi stava sempre dietro il bancone della sartoria e continuava
a stirare finché parlavamo, ma c'era sempre in lavorazione
un abito della misura di uno di noi per simulare la "prova"
se fossero entrati degli estranei. Ad un certo punto Leone
traeva da sotto il banco, che aveva un cassetto a doppio fondo,
il materiale di propaganda ("Giustizia e Libertà"
e manifestini di ogni genere). Noi intascavamo la nostra parte
e via.
Fu da Leone che incontrammo Cencio e subito avemmo l'impressione
che fosse uno dei "responsabili", come si diceva
usando il gergo della clandestinità. Eravamo lusingati,
noi diciottenni, che si interessasse a noi. Per noi era l'uomo
adulto. Da lui avemmo l'assenso a compiere (l'avevamo progettata
da settimane in tutti i particolari) una doppia impresa dentro
i nostri due licei. Si trattava di penetrare nottetempo e
appiccicare nelle classi, ai muri e sui banchi, manifesti
inneggianti all'Italia libera e scrivere su ogni lavagna "morte
ai fascisti, libertà ai popoli".
I compiti furono divisi: quelli del "Polo" al Polo;
noi foscariniani al nostro vecchio liceo. I due piani erano
diversi, ma la data era la stessa.
Angela Basaglia, Rina e Nenè Mentasti con Franco andarono
verso sera, verso le sette o le otto, al "Polo".
Due si intrattennero in portineria a distrarre i custodi permettendo
agli altri di entrare nelle aule e preparare la sorpresa per
l'indomani. Al "Foscarini" l'impresa fu più
complessa: non si poteva farla franca passando per l'angusto
ingresso. Erano le nove e mezzo di sera quando Uccio, Fulvio
e io ci portammo nella calle morta che dalle Fondamenta Nuove
si inoltra verso S. Caterina, ma poi si arresta perché
è chiusa sul fondo dal muro dell'ex Convitto nazionale.
Debbo dire che io feci da palo dopo sorteggio. Uccio e Fulvio
scalarono il muro. Attraversarono l'ampio cortile (nel Convitto
erano acquartierati reparti della Guardia Nazionale Repubblicana)
e giunti ai finestroni del Ginnasio che danno sul cortile
tagliarono il vetro col diamante (quante prove erano state
fatte!), sembravamo esperti "topi di appartamento".
Così penetrarono e con cura, classe per classe, riempirono
la scuola di manifesti e scritte. Se la cavarono in meno di
un'ora, che a me parve una notte intera. Si pensi che alle
11 c'era il coprifuoco. Ma già prima eravamo a letto,
"tronfi" non solo per la nostra audacia, ma per
il successo del piano a lungo accarezzato.
L'indomani eravamo con le orecchie tese per sentire dai nostri
fratelli più giovani, che andavano ancora a scuola,
gli echi del "colpo".
Il nostro amor proprio fu ancora più lusingato quando
venimmo a sapere del marasma che si era verificato in tutte
e due le scuole: pochi ragazzi riuscirono a vedere le aule
tappezzate. Appena i primi entrarono e fecero i loro commenti
si sparse il panico tra gli insegnanti. I ragazzi furono rimandati
a casa e quel mattino non si fecero lezioni. Fu uno dei modi
per far sapere che anche a Venezia gli studenti intendevano
muoversi.
Ero maturo per andare in "montagna". Le istruzioni
erano precise: in treno fino a Santa Giustina poi, a piedi,
fino a Trichiana e poi su fino a Casteldardo, dai Foscolo.
Luciano (Foscolo), che aveva compiti organizzativi, ci avrebbe
poi mandato su, alle brigate. Mi sembra ancora di vedere me
e Lanfranco (Caniato), il mio compagno di avventura, arrancare
sotto il sole con le nostre valigie in mano sulla strada per
Trichiana.
Sul ponte di San Felice, dove attraversammo il Piave, pochi
giorni prima otto partigiani erano caduti in una imboscata
della Brigata Nera di Belluno. Noi, tranquilli, con le nostre
valigie come commessi viaggiatori. Quella di Nello era più
grossa: incastrato in diagonale c'era il moschetto che aveva
fregato in caserma prima di partire.
Settembre, 1975
Da: Comune di Venezia, 1943-1945 Venezia
nella Resistenza, a cura di Giuseppe Turcato e Agostino
Zanon dal Bo, Venezia 1975-76
|