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[Testimonianza di Vana Arnould]
[a c. di mts]



Primo giorno di scuola

…il 1° ottobre 1926 la Renata e la Titti si ritrovarono insieme nella grande palestra della Scuola Elementare Femminile "Giacinto Gallina": indossavano un grembiule a righe verticali bianche e celesti col collettino di piquet bianco: sulla manica una fettuccia, una, indicava che la classe era la prima. In testa le bimbe avevano un grande fiocco azzurro, la cui esatta collocazione andavano a tratti a ispezionare con la mano per accertarsi di avere un aspetto impeccabile. Avevano le cartelle eguali, di fibra, come le altre bambine abbienti, mentre le poverissime, malgrado l'eguaglianza proclamata dal grembiule, denunciavano lo stato d'indigenza dalle buste di tela di sacco che sostituivano le cartelle, buste talora ingentilita da un fiore stampato sopra.
Nella palestra la maestra Bertoli fece l'appello e raccolse le sue pecorelle; attraverso un maestoso scalone le bimbe, in fila per tre, furono portate in classe.

In classe la Renata e la Titti vennero messe in banco assieme; al primo banco, data la statura delle due; e fra le due la Titti era la più piccola. In quel preciso momento aveva il cuore in gola: temeva molto di essere interrogata e sapeva di non sapere nulla. L'atteggiamento della maestra tuttavia la rassicurò: in quel primo giorno di scuola la signorina Bertoli non interrogò nessuno.

La maestra

Era una sorridente zittella di mezza età, dai baffetti neri, autorevole, dolce e sapientissima ed è presumibile che avesse subito insegnato qualcosa: come tenere la penna in mano, ad esempio. Fu un esercizio che durò giorni e giorni.

La penna e l'inchiostro

La penna era composta dal "canoto" e dal pennino, arnese di difficile uso, facile a schincarsi, cioè a spuntarsi. Bisognava intingerlo nel piccolo calamaio incastrato sul banco che la bidella, tutte le mattine, provvedeva a riempire di inchiostro, e tracciare lentamente e con impegno sul foglio del quaderno a quadretti - quello a righe sarebbe stato usato molto più tardi - le aste.

Le vocali

Pagine e pagine furono riempite di aste prima di imparare a scrivere le vocali: la prima fu la "i". Con grande leggerezza si tracciava il filino - le lettere, come spiegava la signorina Bertoli, sono unite l'una all'altra dal filino - che andava a saldarsi a un segno più pesante, tracciato dall'alto verso il basso, che finiva con un uncino leggero: sopra bisognava non dimenticare il puntino. L'operazione era difficile: i pennini traditori lasciavano cadere macchie improvvise, il foglio, talora gravato da una mano troppo pesante, si bucava, il braccio inesperto accartocciava l'angolo inferiore del foglio, facendo le temute "orecchie d'asino". Il risultato però, una volta raggiunto, fu entusiasmante. Dopo le pagine delle "i", altre furono riempite di "u", poi di "o" e così via. Scrivere le vocali fu una straordinaria avventura tecnica e intellettuale.

La cartella

La cartella, detta "sacheta", di una scolaretta di prima elementare del 1926 conteneva i seguenti oggetti: il sussidiario, un quaderno a quadretti e un quaderno a righe di prima che alternava le righe a tre a tre, una più distanziata e due più ravvicinate; gli spazi piccoli contenevano il corpo delle lettere che allungavano i loro tentacoli o in su come la "l" e la "b", o in giù come la "g" e la "f"; non tutte le lettere avevano il permesso di allungarsi fino alla riga sovrastante: la "t" ad esempio non la poteva raggiungere; in giù invece non era lecito toccare il rigo inferiore alla "p". Sui margini del foglio, a destra e a sinistra, due righe rosse perentorie impedivano gli sconfinamenti. Le maiuscole, che non avevano il filino, erano in compenso piene di volute e di ricci. D'altronde tutte le maestre allora avevano studiato calligrafia alla Scuola Normale e trasmettevano la loro scienza alle nuove generazioni. Chi scriveva in stampatello, a quei tempi, era considerato un semianalfabeta; chi, fra gli studenti, lo faceva al ginnasio si riteneva un ribelle anticonformista.
In seconda le righe del quaderno sarebbero diventate più vicine e in terza le righe si sarebbero avvicinata ancora di più. Solo dalla quarta in su la distanza fra una riga e l'altra sarebbe diventata uniforme.
Le mamme avevano foderato di carta blu sia i quaderni sia il sillabario e vi avevano incollato sopra le etichette con i nomi delle proprietarie.
Nella cartella si trovava anche l'album da disegno, la scatola di cartoncino con sei matite colorate e l'astuccio di legno col coperchio scorrevole, detto "portapene", che conteneva a sua volta una penna con pennino, due pennini di ricambio, una matita e una gomma da matita; quella da inchiostro era interdetta, bucava i fogli, diceva la maestra. In ogni cartella c'era poi un oggetto allora indispensabile, il "netapene", ossia il puliscipenna, fatto di due o tre pezzi rotondi di panno nero di dimensioni diverse, concentrici e sovrapposti, tenuti insieme da un bottone centrale. L'oggetto serviva, come dice il nome, per pulire i pennini.

Vana Arnould, Me g'ha contà la nona, memoria conservata presso l'Archivio diaristico nazionale di Pieve S. Stefano.

[vedi in Archivio la raccolta di oggetti (penne, ed altri) descritti in questa testimonianza, e l'album dedicato alla Calligrafia]